PrimopianoVerona

Lotta al coronavirus: parla un medico del Sacro Cuore di Negrar

L'anestesista Luca Cappi racconta la sua esperienza

Raccogliere le parole, e soprattutto le emozioni che ne traspaiono, di chi sta vivendo molto del suo tempo a stretto contatto col “mostro”, quello che attualmente detta le regole del nostro vivere – il SARS CoV-2 – apre le porte ad una percezione diversa di quella che potrebbe avere chi non ci ha mai avuto a che fare.

Luca Cappi, medico anestesista all’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (VR), ci regala un po’ del suo tempo prima del turno in ospedale per darci un breve spaccato della realtà che vive ogni giorno.

Anche a Verona, conferma, c’è stato un picco emergenziale di 2-3 settimane, durante il quale, in alcuni casi, si è reso necessario lo spostamento di alcuni degenti da Negrar ad altri ospedali per evitare di saturare la struttura. Per fortuna, da circa una settimana, la situazione è più tranquilla, si registrano soprattutto molti meno accessi mentre il numero dei ricoverati per coronavirus è intorno a 70.

La mole di ricoveri portata dal Covid ha richiesto la riorganizzazione di parte del complesso ospedaliero del Don Calabria, culminata con il consolidamento di ben 2 piani dedicati interamente ai pazienti positivi al virus, a prescindere dalle problematiche da cui sono affetti. Questo ha comportato lo spostamento tempestivo del reparto di geriatria e la disponibilità di ben 14 posti di terapia intensiva, che nei giorni del “pienone” sono rimasti quasi tutti occupati. Fortunatamente, al Sacro Cuore, per la ventilazione meccanica c’è un’alternativa all’intubazione: la possibilità di indossare un casco – simile a quello di un palombaro – che per il paziente risulta molto meno traumatico.

“Non è una patologia da cui si guarisca velocemente, neppure per chi è giovane; si pensi che la media dell’età dei malati si aggira sui 63-65 anni”, spiega il dottor Cappi. Nella maggior parte dei casi, a parte coloro che avevano già patologie in atto, sembra che i malati muoiano soprattutto per le complicazioni derivanti dalla malattia: in primis renali, e poi neurologiche.

Ma com‘è cambiata la tua routine di medico ai tempi del Covid?

“Beh, diciamo che le ore sono più o meno le stesse, certo che i turni nei reparti Covid, nei quali ci alterniamo, sono molto più impegnative di quelle trascorse lavorando in altri reparti o facendo visite che comunque dobbiamo portare avanti. La nostra fatica non è tanto lavorativa quanto psicologica: essere a contatto con tanta sofferenza, con la paura dei ricoverati (che a volte, terrorizzati, non vogliono essere intubati), non è facile.”

Le misure di sicurezza e prevenzione attualmente applicate dal nostro Governo, secondo te sono sufficienti a proteggerci?

“Sono quelle diramate dall’OMS… Al momento si sa ancora poco di questo virus. Il distanziamento tra le persone rimane la misura di sicurezza più importante, poi bisogna curare molto l’igiene e l’applicazione corretta dei DPI (dispositivi di protezione individuale). Non sarà una cosa veloce a passare per cui dobbiamo cambiare le nostre abitudini; e per un popolo abituato alla vicinanza fisica come il nostro, capisco non sia una cosa facile.” E il vaccino? Quando ci sarà, non potrà probabilmente essere efficace ad oltranza, un po’ come accade per l’influenza che di anno in anno cambia, ma potrebbe comunque aiutare ad essere più forti nei confronti della malattia. Lo stesso dicasi per la presunta immunità acquisita, che ad oggi non sembra essere definitiva.

Fortunatamente, seppur nell’inferno in cui erano e sono immersi, i medici lombardi hanno sempre trovato il tempo di inviare consigli e indicazioni utili ai loro colleghi veronesi, appena investiti dall’ondata del virus: “Vale molto di più di tante teorie, perché questi flash ci venivano da chi stava sperimentando dal vivo, sul campo, la battaglia contro il corona virus”, afferma Luca. E aggiunge che tra medici stanno facendo rete, scambiandosi continuamente informazioni e studi e tenendosi costantemente aggiornati sulle ricerche in atto in tutto il mondo.

Cosa ti ha colpito di più nella tua esperienza di medico in trincea?

“Purtroppo abbiamo dovuto saggiare la durezza di una morte in solitudine, nell’impossibilità dei pazienti di aver vicini i propri cari e, per questi ultimi, il trauma di vedersi portar via in ambulanza un proprio congiunto, per poi magari sentirsi dire, il giorno dopo, che era morto, senza quindi averlo potuto vedere… Non poter elaborare il lutto com’è nella nostra cultura, non poter avere un funerale, lo rende ancor più doloroso.”

Finché il virus non passa vicino, è difficile rendersi conto appieno della sua pericolosità, ma ascoltare la testimonianza di Luca e di tutti quelli che, come lui, lo guardano in faccia tutti i giorni, fa correre un brivido lungo la schiena: è la situazione in cui ci troviamo, nella quale collaborare è per ora l’unico modo di proteggersi.

A cura di Silvia Gambato

Articoli collegati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button