La storia musicale di Silvia Rigoni, in arte ‘Artemisia’, classe 1985, è per certi versi simile a quella di molti giovani che hanno mosso i primi passi nel costruirsi una carriera musicale. Ma ci sono diversi aspetti che la rendono speciale. Artemisia, negli ultimi brani lanciati nell’etere con il progetto Canary In The Goldmine o nell’ultimo singolo-videoclip pubblicato in collaborazione con Matteo Piomboni (musicista veronese), ha mostrato la sua visione assolutamente contemporanea (quasi proiettata nel futuro) con brani dalle atmosfere alchemiche, rarefatte ed impalpabili, intrise di richiami trip-hop e pop, che hanno avuto affermazione negli anni novanta. Stupisce però il fatto che in Artemisia convivono più anime apparentemente diametralmente opposte tra loro. Per esempio quando, non appena cambia registro ed inizia a cantare accompagnandosi con un piano, con una chitarra o un ukulele, in totale autonomia, riesce a dominare atmosfere jazzy e bluesy, raffinate e d’altri tempi. In modo naturale, semplice e solitario, tra le pareti di un club o su un grande palco, come nella sua più recente apparizione al Mura Festival di Verona, in apertura al concerto di Tonino Carotone. Questo fa di lei un’artista senza dubbio versatile, affascinante, carismatica e per certi versi enigmatica ed imprevedibile. Per portarci su altre strade e nuovi percorsi sono attualmente in lavorazione due singoli, in uscita nel 2022, in collaborazione con il musicista-produttore Luca Urbani e Valeria Rossi (autrice e cantante di “Sole Cuore Amore”), sfaccettando ulteriormente la sua carriera solista come cantautrice. A lei qualche domanda:
- Ciao Silvia! Raccontaci un po’ di te: come ti sei avvicinata alla musica? Qual è almeno la prima parte del tuo percorso artistico?
Non so dirti l’istante esatto in cui mi sono avvicinata alla musica, ma so che uno dei miei primi ricordi d’infanzia è legato ad essa: mia madre mi cantava ‘Generale’ di De Gregori come ninna nanna e ricordo molto bene l’attimo in cui l’ho scoperta essere una canzone vera e l’entusiasmo immotivato che provavo nel sentirla. Di fatto, l’attrazione verso la musica e gli strumenti musicali è nata insieme a me, mi ha accompagnato fino a oggi in un crescendo costante. La prima volta sul palco avevo 11 anni e da quella volta non ho più smesso.
- La musica che proponi è ricca di contaminazioni difficili da prevedere. Quali sono gli artisti da cui hai tratto ispirazione?
Ascolto così tanta musica che la definirei un’ossessione, una ricerca continua. Le contaminazioni sono molte e spaziano tra i generi e le epoche, ma non mi ispiro a qualcuno in particolare, almeno non consciamente. Amo molto l’impatto sonoro dei Massive Attack, la voce di Jeff Buckley, lo struggimento del blues, Bjork, amo il cantautorato italiano e francese, Manson, la tromba di Chet Baker. Diciamo che traggo ispirazione da un bacino molto ampio, anche se l’obiettivo è sempre e solo di riuscire a creare un suono che trasmetta un’immagine il più fedele possibile a ciò che io sono davvero. Adoro scrivere musica con altre persone, sono fermamente convinta che la diversità sia ricchezza: ogni volta mi stupisco del grandissimo apporto umano e creativo che le collaborazioni sono capaci di dare.
- Che cosa significa per te fare musica?
Vuol dire farla e basta, ad ogni costo e in ogni occasione. Dire la propria, dare il proprio contributo. Suonare sempre, vivere immersi nella musica, è una missione di vita. Personalmente sono stata per molto tempo schiacciata dall’ambizione, dall’obiettivo di raggiungere chissà quali traguardi. Ma mi sono resa conto che fare musica, non significa solo fare carriera, arrivare da qualche parte. E’ una missione più nobile, come l’arte in genere. Noi siamo i servi della musica, non lei delle nostre ambizioni.
- Come ti ho già detto, ascoltando e guardando le tue esibizioni, è avvertibile una certa energia che mi ha sorpreso per la tua interpretazione, per lo stile di narrazione, positivo ed energico. Un arrangiamento moderno che pesca nella tradizione, ma che ha una veste pop/rock e, non so come dire, un cuore folk…
Il ‘moderno’ è la ricerca, la tradizione è la mia storia (in parte), il pop/rock un compromesso tra ciò che sono e ciò che amo vocalmente. E’ proprio per liberare quell’energia che canto, suono e scrivo: ho una necessità furibonda di comunicare: scrivo, disegno, dipingo, compongo, faccio foto. Tutto mirato a manifestare il mio personale stato d’animo, a esprimere pensieri che a parole fatico ad esporre. Sono una persona tormentata, la musica mi ha dato modo di entrare in contatto con questo tormento, di aprirvi un dialogo e raccontarlo. Ciò che si vede e si sente mentre suono, i generi, le contaminazioni, i testi, le melodie, sono tutte fasi di questo dialogo continuo, sono io che mi racconto.
Lorenz Zadro